CALIFORNIA DREAMING -parte tre-

Giorno 9

Inizio CTN, che poi iniziò non è.
Noi siamo gli unici a sistemare lo stand, in un padiglione dove nessuno pare preoccuparsi dell’inizio della manifestazione, per essere la mia prima edizione, non mi pare gran che. Si vedono alcuni addetti ai lavori, è qualcosa forse ci dovrebbe essere, vari ragazzi chiedono informazioni armati di cartellino e zainetti, parliamo con Gary Goldman e sistemiamo lo stand, applicando i nostri teli che raccolgono subito i primi complimenti. Poi capiamo, ma gli anni precedenti era diverso, che oggi ci sarà qualcosa, ma la manifestazione vera e propria inizierà l’indomani.
Io, Alberto e le ragazze decidiamo di andare a vedere il LACMA, il Los Angeles County Museum of Art che era saltato il giorno precedente perché chiuso, per cui riprendiamo il taxi e ci dirigiamo verso Wilshire Boulevard.
Il museo è costituito da due monoblocchi piuttosto regolari, accanto a quello degli Academy Awards, lo stile è moderno ma la forma è regolare, il primo è disposto su tre livelli collegati da una scala, mentre il secondo gli è di fronte ed accessibile da un’unica porta. L’arte contemporanea, che non era contemplata al Getty Museum, riparte da qua. In effetti il terzo piano, e il primo da visitare, è costituito dall’arte dal ‘900 ad oggi.

L’esercito di lampioni di fronte all’ingresso del LACMA, e l’accesso al museo.
 

Alcune delle opere esposte, dall’alto: Henning, Modigliani, Hockney, Magritte e Koenig.

Qui ci sono opere esposte dei più grandi artisti del novecento, con l’inizio di tutte le correnti del secolo che hanno cambiato la storia dell’Arte. Da Pissarro a Cezanne, a Margritte, Grosz, Feininger, Leger, Modigliani, Picasso, Rothko, Klee, Kandisky, fino ad arrivare alla Pop Art con Warhol, Jones, Mc Millan, Liechtenstein, e poi Hockney,Pistoletto. Poi lo sviluppo dell’arte nel design con Eames, Saarinen, Aalto, la pubblicità e gli ultimi artisti composta di varie installazioni. Nel padiglione accanto c’è una mostra temporanea dell’arte contemporanea sud coreana, molto interessante e molti nuovi acquisti di autori americani.
Una carrellata nel novecento con pezzi unici, anche qui con sezioni donate da vari filantropi della città, che hanno donato opere prelevandole dalle loro collezioni per concederle alla città. Adiacente al LACMA, stanno costruendo il nuovo Museo Geffen, che sarà una nuova struttura moderna che regalerà alla città ulteriori opere d’interesse artistico. Andiamo a pranzo in un localino lungo il Wilshire e poi c’è ne torniamo all’hotel.
Stasera siamo invitati ad una prima del nuovo film d’animazione Disney “Strange World”, direttamente nel cinema all’interno della Disney stessa. Si può dire una prima quasi mondiale, visto che la prima è stata fatta al teatro El Capitan due sere fa.

Altre delle opere esposte, dall’alto: Mc Millan, Liechtenstein, Wahrol, poi la poltroncine di Saarinene e Alvar Aalto, e infine la dinamica installazione di Chris Borden.

Alla partenza, nella hall dell’albergo, incontro Christian Scampini, un giovane creativo conosciuto anni fa in un festival, di cui entrambi non ricordiamo la precisione dell’evento, e ci mettiamo a chiacchierare ripromettendoci di vederci i giorni successivi durante la manifestazione.
Arriviamo in orario, nonostante sia stato difficile trovare il taxi Uber che ci portasse alla Disney. Qui scopriamo che la prima è stato organizzata in concomitanza del CTN e vediamo diverse persone che avevamo incontrato nella hall dell’albergo pochi istanti prima in attesa dei rispettivi taxi.
Veniamo fatti sedere nella sala non grandissima degli Studi Disney, sormontata da luci che compongono la silhouette di Topolino che nasconde le luci che la illuminano, e non prima che ci venga consegnata una bottiglietta d’acqua e un pacchetto di pop-corn, evidentemente, da queste parti, la perfetta visione di un film non può prescindere da questi due accessori. C’è da ricordare, che precedentemente i nostri cellulari erano stati introdotti all’interno di una guaina protettiva che li bloccava dentro, per non permetterci né di filmare, né di fotografare alcun che, durante la proiezione.
Il film non è stato niente di che, uguale a mille altri, il solito politically correct che prevede a livello di razza una selezione di: bianco, nero, mulatto, indiano, cinese e, per genere almeno un gay, una cosa un po’ ‘ stucchevole non perché queste cose non meritino la loro legittima presenza, ma perché quando è dosata col misurino diventa una buffonata non spontanea, e a mio modesto parere perde molto delle sue potenziali positività.
La trama tratta di un giovane figlio di un esploratore coraggioso e indomito che, negato per l’esplorazione e un po’ imbranato, invece di seguire le orme del padre, decide di fare il contadino, e opta così per una vita più tranquilla nel mondo di Avallonia. Il padre, contrariato dalla scelta, lo abbandona al suo destino lasciandolo alla vita agreste che tanto ama.
25 anni dopo, mentre il figlio ha una sua attività ben avviata (la coltivazione di una sorta di pianta il cui frutto verde genera tutta l’energia utile ad ogni attività del paese), viene contattato per risolvere un problema che mette in pericolo tutto l’ecosistema del posto e che solo lui, in quanto esperto di questa pianta particolare, può risolvere. Il giovane figlio, come da cliché, contrariamente al parere del padre lo segue, e la per non lasciarlo da solo, anche la moglie si unisce alla missione. Si tratta di andare al centro del pianeta ed entrare in un mondo del tutto particolare, che si ritroverà essere un corpo di un essere dove scopriremo essere il suo “cuore” che si sta ammalando. Un viaggio al centro del corpo, dove questo è “il mondo straniero” e le creature che lo abitano rappresentano globuli, batteri ed organi vitali e dove l’interno di questo universo è in realtà il pianeta da esplorare e da curare. Il nonno partito anni prima, ritroverà la sua famiglia e, insomma, finisce tutto a tarallucci e vino.

L’ingresso del teatro ai Disney’s Studios, e un allestimento con i protagonisti del film d’animazione “Strange World”.

Di fronte all’esposizione dei premi vinti dalla Disney, con Alberto e Luca.

Fine del film, dieci minuti buoni di titoli di coda da reggere con religioso silenzio e sacrale attenzione, ma forse di più, poi i soliti nerd che fanno domande a capocchia ai due creativi presenti che rispondono garruli e pimpanti alla piccola discussione alla fine del film, e poi finalmente tutti liberi e a nanna, dove dimenticheremo in un batti baleno la trama del film, ma ricorderemo la serata disneyana.
All’Hotel mangiamo tutti insieme, il Drill&Grill Restaurant è uno dei pochi che fa le ore piccole, qui tutti cenano alle sei, e alle otto sono già tutti chiusi. Poi ognuno ritorna nelle stanze, accompagniamo Fabrizio Mancinelli all’uscita, e c’è ne andiamo tutti a dormire.
È una costante alla quale oramai ci siamo abituati tutti, dopo cena siamo così distrutti che non rimane neanche un po’ di tempo per fare due chiacchiere.

Giorno 10 

È il giorno dell’inizio del CTN, praticamente la vera ragione per cui abbiamo intrapreso questo viaggio, se non fosse che ci abbiamo accorpato parecchi giorni di vacanza, inclusi gli incontri con i Three Tooners per le interviste da fargli per una collana di libri che vorremmo realizzare con loro. Ultima sistemazione dello stand, con l’esposizione dei libri che abbiamo editato, e lo spazio relativo lasciato a Willy Ito, Toni Benedict e Jerry Eisemberg, tre leggende dell’animazione che saranno ospiti fissi della manifestazione.

I “Three Tooners” all’opera allo stand dell’Accademia Nemo al CTN.

La giornata praticamente è tutta qui, trascorsa allo stand, a firmare le copie del cartonato dei tre autori, nell’incontrare personaggi che potrebbero essere importanti collaboratori della scuola, e le PR utili alla nostra presenza alla manifestazione, PR che sono sicuramente prerogative più di Luca che mie, perché io in queste situazioni, al di là del fatto che non ho competenze nell’animazione e non conosco le personalità, sono anche un po’ orso marsicano. Incontriamo John Pommeroy, Tom e Tony Bancroft, Aaron Blaise, Ron Barbagallo, e Gary Goldman, e questi ultimi due, insieme agli autori con Kathleen e Raymonde (la prima assistente di Toni Benedict, e l’altra la moglie di Eisemberg), andiamo a pranzo insieme.
Il CTN oggi è pieno di vita, per me che è la prima volta l’affluenza è equivalente a molti festival francesi di BD, ma questa di può definire una festa per professionisti o aspiranti tali, organizzata per addetti ai lavori: artisti, studenti d’arte, recruiters, uno spazio dove scambiare conoscenze, fare pubbliche relazioni e allacciare proficue collaborazioni tra operatori del settore.
Poi verso le cinque ci mettiamo in movimento e cominciamo a salutare tutti, anche se il distacco dalla compagnia è complicato, dobbiamo andare al palazzetto dello sport di Los Angeles, che qui ha un nome diverso, perché effettivamente non è propriamente un palazzetto, perché il vezzeggiativo “etto” è riduttivo, qui si chiama cripto.com Arena, perché si tratta di un’arena vera e propria, vista la grandezze e la maestosità.

Dall’alto i palazzi di fronte alla cripto.com Arena, in occasione della partita di campionato dei Lakers contro i Detroit Pistons, gli enormi video che sovrastavano ed illuminavano la via, l’ingresso dell’Arena e la vista dal primo anello del campo di gioco.

La struttura è moderna e nuovissima, e si trova nel mezzo della downtown, la parte commerciale e finanziaria di Los Angeles, irta di grattacieli tutti vetro e acciaio, siamo tra gli alti palazzi che compongono la zona che se è operosa di giorno, invece si spopola la notte perché costituita solo di uffici. Di fronte a noi, si ergono appoggiati ad un palazzo che probabilmente è un enorme parcheggio, tre enormi maxi schermi che nel complesso saranno oltre 400 metri quadrati di video. Questi illuminano la strada e l’area dei colori di fondo delle pubblicità che passano ciclicamente con un effetto psichedelico e caleidoscopico all’intera zona, un vero e proprio spettacolo di luci ipnotico.
La gente entra nella struttura con calma e senza problemi, sembra una tranquilla serata al cinema, ma appena si ha l’opportunità di dare una sbirciata all’interno, lo spettacolo dell’immensità della struttura che ospita 20.000 spettatori è impressionante.
Noi dobbiamo salire all’ultimo livello, il più alto, e lo facciamo accedendo da scale mobili che attraversano in diagonale l’enorme atrio, dandoci una prospettiva dall’alto e una visione esterna dei maxischermi attraverso i vetri, davvero suggestiva.

Nella nostra posizione con Alberto, e alla fine della partita.

All’ultimo anello la vista è ottima, il rettangolo di gioco è visibile benissimo da ogni parte e da quassù si gode anche di una bellissima vista d’insieme. I posto mio e di Alberto è il primo della fila dell’anello, la visione sarà perfetta.
È inutile parlare della partita dei LA Lakers contro i Pistons di Detroit, anche se nel primo quarto i secondi sembravano nettamente superiori, difendevano bene, sbagliavano poco e sono andati avanti per oltre dieci punti di vantaggio. Poi i locali hanno raggiunto gli avversari e dopo un piccolo testa a testa durato appena un quarto, sono sopravanzati di circa dieci punti e non hanno più perso il vantaggio fino alla fine vincendo agevolmente. Per la cronaca Lebronn James, l’astro di casa e il giocatore americano più importante è conosciuto al mondo, non giocava, era seduto a fine panchina in tuta, ma nonostante l’assenza, la sua squadra ha vinto lo stesso, con un Anthony Davis che si è portato a casa uno score di 38 punti personali, con non so quanti rimbalzi.
Ma il vero spettacolo è tutto il resto, l’insieme è costruito come un grande show che deve soddisfare lo spettatore ben oltre la semplice attrazione sportiva, e lo fa con gli stacchi delle Lakers Girls (le cheer leaders), che nell’arco della serata hanno realizzato tre balletti, i giochi che vengono svolti tra le interruzione dei quarti, con gli sponsor che attraverso prove di abilità (facendoli fare un percorso con i canestri, e giochi a quiz sul basket) coinvolgono degli spettatori selezionati che vincono dei premi, l’orchestra che in una pausa intona la musica della squadra, e poi i giochi di luce che si riflettono sul parquet, la musica che incombe anche durante la partita con basi per quando la squadra è in attacco o è in difesa. Poi, per tutto il tempo sugli schermi che sovrastano il campo campeggiano punteggi, e lo score riguardante le percentuali dei giocatori, e passano continuamente le pubblicità. Poi, sempre sugli schermi, anche nei momenti d’attesa si coinvolge il pubblico con inquadrature mirate, una telecamere insegue le persone sugli spalti e le inquadra per alcuni momenti rendendole protagoniste momentanee. E’ attraverso queste inquadrature che vediamo nei posti a bordo campo Jack Nicholson e Benicio del Toro, riconosciuti fans della squadra dei Lakers. Un enorme, gigantesco spettacolo nello spettacolo che si svolge ogni volta che la squadra gioca in casa e lo spettatore/cliente è il protagonista assoluto, il punto centrale in cui giocano le attenzioni degli organizzatori, è lui il vero protagonista insieme ai giocatori, e questo meccanismo trasforma la serata di sport in una serata di puro divertimento.
E se talvolta, per mille altri motivi, trovi delle riflessioni un po’ deludenti sugli americani in merito a molti altri contesti, devi convenire che su spettacolo e ottimizzazione del business non hanno da imparare da nessuno. Del resto questa idea di “divertimento totale” la ritrovi nei parchi a tema, dove tutto è sfruttato, ottimizzato per regalare totale divertimento allo spettatore, il business che si sposa con l’entertainment, è tutto riporterebbe al cinema che, anche se l’hanno inventato i fratelli Lumiere, qui ha trovato la sua massima espressione diventando il mercato e l’industria più importante del paese.
Comunque, a fine partita il pubblico defluisce con tranquillità e senza problemi, anche se l’arena non era tutta esaurita il tutto si svolge senza intasamenti o file lunghissime, fuori ci accolgono svariati banchetti di venditori di hot dogs abusivi, che vista l’ora rifocillano le migliaia di persone che probabilmente non hanno cenato, per poi eclissarsi velocemente, probabilmente per paura di rappresaglie della polizia. Poi da ogni parte driver di taxi abusivi che si offrono al migliore offerente, ma noi coerentemente optiamo per il nostro Uber, una applicazione mai sfruttata così tanto in questi giorni. Arrivati all’albergo avremmo anche mangiato qualcosa se non fosse che a quell’ora anche i franchise poco distanti, i pochi aperti, fanno solo takeaway con le auto, per cui decidiamo di tenerci la fame, e soddisfarla il giorno dopo, del resto un salto di cena, con tutti i troiai che mangiamo, non può farci che bene.
Fegato & C. ci ringrazieranno.

Giorno 10

Siamo già a doppia cifra, il che significa che la nostra vacanza sta volgendo verso il termine.
Digiuni dalla cena, io e Alberto decidiamo di compensare con una colazione all’americana: uovo in camicia affogato in salsa olandese su un toast e una fetta di bacon e patate con ketchup, una cosa leggerina che mi rimarrà, nonostante lo spazio avanzato dalla sera prima, sullo stomaco per tutta la mattina, tant’è che a pranzo opterò per una semplice New England Soup Crowd, una zuppa che abbiamo già mangiato e che è diventato un must.

La corposa colazione all’americana, con l’uovo in camicia, salsa olandese (il bacon è nascosto dall’uovo) e le classiche patate col ketchup, un inizio di giornata corroborante e ricca di calorie.

Mi trovo sempre più convinto a pensare, che la “paura di morire di fame” nella catena del nostro DNA abbia radici molto profonde e difficili da estirpare, per cui nel contesto del trittico colazione-pranzo-cena, in una giornata tipo di un italiano, quando salta uno di questi elementi, deve subito essere rimpiazzato con un succedaneo o un rinforzo sugli elementi successivi.
Ad ogni modo, siamo al secondo giorno di CTN, la manifestazione è in pieno svolgimento e le cose da raccontare non sono moltissime anzi, diciamo che per tutta la giornata il nostro baricentro è e rimane lo stand, intorno al quale accadono incontri, si fanno nuove amicizie o se ne incontra delle nuove. Gironzolando all’interno degli spazi della manifestazione capita di incontrare artisti più o meno conosciuti, per me meno, ripeto: non è il mio ambiente e mi mancano i punti di riferimento ma, per fortuna ho intorno a me persone che supportano e sopportano questa mia indolente ignoranza.
Alberto si arrocca allo stand e comincia a prendere gusto alla vendita e, nel suo agile inglese, si inerpica anche in spiegazioni che non gli competerebbero ma dalle quali ne esce splendidamente al punto di apparire quasi uno standista preparato e competente.
E il bello è che si diverte.

Stand al CTN e quello dell’Accademia Nemo.

È entrato subito in sintonia con i Three Tooners che lo hanno adottato come nipotino, così come hanno fatto con Rebecca e Ginevra, le figlie di Fabrizio, e loro lo chiamano e ci parlano storpiando il suo nome, come fanno simpaticamente con il nome di tutti, in un inglese che dilania in un miagolio che solo lontanamente ricorda la fonetica dell’originale.
Stare allo stand, anche semplicemente a presenziare come faccio io, che sono l’emblema più vicino all’inutilità in queste situazioni, perché il mio pessimo carattere che non m’induce verso l’accoglienza e l’accomodamento altrui, mi impedisce di essere utile, e non riesco bene a capire come ma chi mi sta vicino non mi mandi a cagare, ad ogni modo, anche così la cosa stanca.
Andiamo a pranzo che siamo un battaglione, è sempre così, siamo capaci di raccattare chiunque nel raggio di cinquanta metri, è più forte di noi, ma questa è sempre riuscito a dare forza al nostro gruppo. Poi, in questo caso, siamo oggettivamente molti, i tre artisti con Kathleen e Rymonde e una sua amica, noi quattro (Rebecca si sente poco bene), Fabrizio Mancinelli e Florian Satzinger.

Il classico pranzo Nemo, “più siamo e meglio stiamo”.

Nel pomeriggio la musica non cambia, oggi tutta la giornata al CTN, Toni Benedict è tornato a casa insieme a Kathleen e il carosello che si alterna intorno allo stand è sempre molto concitato. Si presenta a noi un illustratore/animatore francese ma che vive negli USA e ci fa vedere un piccolo pitch molto bello di una produzione che vorrebbe realizzare, e rimaniamo colpiti dai disegni e dalla qualità delle immagini, e speriamo o di poterlo aiutare in qualche modo. Ci sono un sacco di giovani artisti a caccia di nuove opportunità, i tavolini dei recruiters sono sempre affollati di studenti che mostrano il loro portfolio, è una circostanza in cui si creano connessioni, ci si conosce e si spera che il proprio lavoro interessi a qualcuno che ce lo promuova e lo valorizzi.
In merito a questo, stavo facendo alcune semplici considerazioni: la prima è che i controlli così poco stretti, in altri contesti sarebbero stati sfruttati dai soliti furbi che si sarebbero intrufolati senza pagare il biglietto, cosa che qui non succede.

Alberto nei panni del bookseller e, devo dire, mi pare che gli stessero comodi.

La seconda è che è una manifestazione dove sostanzialmente non si vende niente (a parte un paio di stand che hanno libri di making of, e le opere degli artisti), e quindi non si può pensare di avere enormi afflussi di persone, (in buona sostanza è un mercato circoscritto di addetti ai lavori) né promettere lauti incassi ai partecipanti, ma è stata invece concepita per dare opportunità e nuovi contatti per aiutare le aziende a trovare personale compatibile con le loro esigenze, e creare reali opportunità per artisti di trovare una collocazione professionale adatta alle loro competenze.
La giornata scorre tranquilla, Alberto ci saluta e va all’aeroporto Internazionale di Los Angeles per ripartire e tornare a casa entro la fine della domenica. È il primo a lasciare la comitiva, lo aspetta un lungo viaggio di ritorno.
Cambio di camera per una redistribuzione dei letti e ulteriore disguido con la reception, questi americani hanno una duttilità che a confronto i quaccheri sembrano giovani partecipanti ad un rave di techno. La sera a cena siamo insieme a Tom Bancroft, il resto del gruppo ed Eleonora Giuffrida, la studentessa che si aggregata a noi negli ultimi giorni. Io sono scosso da colpi di tosse fastidiosi da un paio di giorni e la cosa si sta acuendo, mi è passato il male di gola, ma è arrivato un raschino insopportabile ed ho momenti di violenta compulsione, stasera che dormo con Luca e Fabrizio, non vorrei rovinargli la nottata (con Alberto non avevo questo problema, cadeva in un sonno così profondo, che non l’avrebbe scosso neanche l’adunata dei bersaglieri). Così, prima di andare a letto prendo sciroppo, spray al proporli e perfino una Tachipirina, tutto l’armamentario a disposizione per contenere il problema.
Domani vi dirò com’è andata.

Giorno 11

La situazione è andata meglio del previsto, mi sono svegliato alle 5,00 ma mi sono anche riaddormentato, anche se tuttavia credo di avere suonato diverse arie tratte da Bach col mio russare. Speriamo almeno di essere stato intonato.
Sveglia normale e discesa a fare colazione per l’ultimo giorno del CTN.
Anche oggi non ci sono resse. E per me, che è la prima volta che vengo, mi pare una manifestazione tranquilla e senza stress, dove chiunque può parlare con chiunque.
Anche stamani visioniamo un progetto spagnolo molto bello (curioso come i più belli siano di origine europei), e incontriamo Fabrizio Mancinelli e Max Narciso, nel tourbillon degli artisti che però sembrano molto meno dei giorni precedenti.
La mattina trascorre tranquilla e senza grandi problemi, e poi anticipiamo il pranzo consci di dover avere il tempo per organizzare il panel dei Three Tooners (ma senza Toni Benedict che non pare intenzionato a tornare), e quindi muoviamo verso il Drill&Grill Restaurant.
Dopo il consueto pasto a base di hamburger, ci dirigiamo tutti verso la sala Pasadena del luogo in cui abbiamo l’incontro. Condurrà Fabrizio Mancinelli che si è prestato a fare il commentatore e da collante all’intero scambio di opinioni consueto tra Willi Ito e Jerry Eisemberg.

La sala è molto ampia e si notano di più gli spazi, ma nel contesto della manifestazione possiamo dire che l’ora di racconti e comparazioni con un mondo dell’animazione che non esiste più, è stato davvero interessante.
Finito l’incontro siamo andati allo stand a cominciare a inscatolare il restante del materiale fino ad oltre le cinque. Abbiamo smantellato lo spazio, venduto le ultime cose, ordinato ogni oggetto nell’apposita scatola e li abbiamo accatastati in un angolo.
Poi insieme a Fabrizio Mancinelli e Eleonora Giuffrida, ci siamo diretti alla villa di Andreas Deja, che ci aveva invitato per farci vedere in anteprima il suo “corto” (di 29 minuti), che ha disegnato, diretto e prodotto.
Arriviamo alla sua villa salendo su per stradine circondate da case di un certo livello, è piuttosto buio, ma si percepisce la ricchezza del quartiere. L’autista di Uber perfino si perde nel dedalo di viuzze tutte uguali, anche se sta seguendo pedissequamente le direttive del navigatore satellitare.
La villa è situata alla fine di una ulteriore stradina in salita, è in stile simil-messicano, con archi alle finestre e bovindo, ci fa strada Roger, il compagno di Andreas, ed entriamo in una classica casa americana da Star di Hollywood. Sappiamo che Andreas sta molto bene, ed ognuno si è immaginato la casa in relazione alla propria fantasia, ma la realtà spesso proporne sempre inaudite sorprese. È illuminata con luce diffusa e la luce è presente in tutte le stanze, come se tutte, all’unisono volessero darci il benvenuto. Fabrizio e le ragazze sono già arrivai e sono nell’atrio, dove campeggia una scala che sale con moto rotatorio verso l’alto, dove si propone un piccolo ballatoio che ospita due poltrone e che dà accesso al piano superiore. Le stanze sono grandi e soprattutto numerose, c’è una sala, poi un’enorme cucina che da su un altro ampio spazio prospiciente all’esterno, dove si estende un giardino che da sulla città illuminata, e dove una luce bluastra illumina la piscina adiacente.
Una vista da sogno.
Andreas ci offre del prosecco e degli stuzzichini prima di farci accomodare nella sala adibita alla visione, dove infatti un ampio divano è posto di fronte ad un enorme schermo TV. Non posso fare a meno di sbirciare alle pareti, è un mio vizio, dove troneggia un bellissimo quadro con un primo piano di una tigre realizzato ad olio, e sul fronte opposto c’è una splendida illustrazione in BN di Hirshfield che raffigura Clark Gable e Vivien Liegh, splendidi protagonisti di “Via col vento”. Poi devo necessariamente allontanarmi dal mio curiosare perché la proiezione ha inizio, e così comincia la visione di “Mushka”. Mushka è una storia ambientata in Russia, e che parla dell’amicizia di una tigre siberiana con una ragazzina, che si ritrova a frequentare di nuovo il padre, a causa della malattia della nonna che l’aveva in custodia. Ci sono dei cattivi che a suo tempo uccidono la mamma tigre, la quale lascia un cucciolo di cui la ragazza si prenderà cura, e l’amicizia che cresce con l’età dei protagonisti, fino a che non dovrà abbandonarlo con grande strazio per salvargli la vita, e alla fine tornerà e ne ritroverà i figli. La storia naviga sui binari del classico, sia come trama che come dinamiche narrative, la realizzazione stilistica invece ha un sapore più moderno, il clean-up è volutamente sporco, e da all’insieme una maggiore freschezza, i colori sono tenui e la messa in scena stilizzata e sintetica, e il risultato finale è decisamente coinvolgente.
Molto belle le musiche di Fabrizio Mancinelli, il nostro accompagnatore, mentore ed amico di questa nostra lunga vacanza, che ha cercato di rubare tempo al proprio lavoro per stare con noi e farci da pigmalione in questi giorni, ma anche divertendosi molto insieme a noi. Le musiche hanno un sapore classico che decisamente ricorda le melodie russe ed avvolgono col calore delle loro note l’intera storia, un lavoro di grande spessore. Appena terminata la visione, giusto il tempo di ringraziare Andrea di questo privilegio, fargli i complimenti per il lavoro, che usciamo per raggiungere il ristorante dove proprio lui ha prenotato la cena da: Hugo’s.
Il ristorante ricorda una road house, ed ha cibo che ci dicono attento alla qualità delle materie prime che, ci dicono, dovrebbero essere a Km 0 ( con tutto quello che può comportare in un contesto come quello di Los Angeles), e fanno una pasta decisamente buona.
Siamo buoni, gli crediamo.
Ordiniamo una pasta che sulla carta dovrebbe essere una “quattro formaggi”, anche se uno di questi è il cheddar, che qui usano anche come zeppa per le porte; ci chiedono anche con cosa c’è la debbano accompagnare, e noi, su suggerimento di altri diciamo patate, (tanto per cambiare), pare che certi piatti di pasta debbano avere un degno compagno per essere serviti.
Ma i consigli sono giusti, la pasta anche se a 8000 gradi farheneit, è decisamente buona, diversa dalla nostra ovviamente, ma buona.

L’unico disegno realizzato in questa occasione, una dedica al caro amico Fabrizio Mancinelli.

Noi gentilmente offriamo la cena, anche se Roger si era alzato per andare a pagare, non sia mai, è come fosse  scritto nella statuto della scuola, non sia mai che la Nemo faccia pagare o un pranzo o una cena, l’ho già detto e lo ripeto, noi siamo mensa aziendale e catering per tutti e, come da consuetudine, offriamo noi!
Loro, a dire il vero, si offrono di portarci all’Hotel, meno male, almeno i soldi di Uber questa volta li risparmiamo.
All’albergo salutiamo tutti, con Fabrizio ci rivedremo prima della partenza, con gli altri alla prossima occasione, poi un ultima sosta nel salottino pre-sonno per la chiacchieratina serale prima della ninna, e poi tutti a letto.
Domani siamo al penultimo.

Giorno 12

Stamani andiamo da Jerry e Raymonde Eisemberg, la fantastica coppia, l’unica che sia rimasta ancora tale del trio di artisti, è l’unica che non avevo mai conosciuto, e ho avuto modo di farlo in questi giorni del CTN e mi sono rimasti nel cuore. Dobbiamo lasciargli delle scatole nel loro garage che poi andremo a far prendere da un corriere, il materiale e i libri rimasti, pochi per fortuna; inoltre Luca deve terminare anche l’intervista da inserire nel libro monografico che vorremmo dedicare all’artista.
Oggi non prendiamo il solito Uber, perché uno degli steward dell’hotel, ci ha consigliato un suo amico tassista (probabilmente abusivo) che ci farà spendere un po’ meno, ed abbiamo deciso di prenotarlo anche per domani per portarci all’aeroporto. Con noi viene anche Eleonora che, col suo inglese assai migliore del nostro, ci aiuterà nelle domande. La coppia vive a Tarzana (un nome che solo gli americani potevano dare a un paese, e non cominciamo a fare battute su Cita o Jane), un quartiere della città composta da mille altri come questo, in un punto che anche se ve lo dicessi non riuscireste a capire bene dove si trova, vista la loro somiglianza ed alla ragnatela di boulevard, drive, street e route che l’attraversano. Inutile dire che la giornata è esattamente come le altre, oggi, se volessimo essere ancor più precisi, all’ora in cui partiamo, qualche nuvola che opacizza leggermente il cielo c’è, anche se è del tutto ininfluente, e nelle ore successive, le suddette nuvole si vaporizzeranno lasciandoci ulteriormente immersi nell’azzurro. Ma è pur vero che l’imprevisto è sempre dietro all’angolo, a soli tre minuti dal traguardo, dopo avere udito un rumore sospetto qualche minuto prima, il guidatore si ferma per controllare le ruote e si accorge che quella posteriore destra è forata. Si ferma ad un distributore e la rigonfia giusto per accompagnarci a destinazione, sembra che le forature stiamo diventando una sinistra caratteristica dei nostri viaggi (vedi quello di Angouleme).

L’imprevisto sempre dietro all’angolo, la foratura come costante nei nostri viaggi.

Il quartiere dove ci fermiamo sembra appartenere a una zona residenziale tranquilla, a dire il vero mi pare di avere visto solo zone di questo tipo, casette in legno molto basse e circondate dal classico prato verde, ampi garage e macchine che stazionano fuori, alberi che costeggiano le strade e che si alternano con le classiche palme altissime, caratteristiche della città, insomma, la classica cartolina del quartiere residenziale medio americano. La casa di Jerry e Raymonde non fa differenza, scarichiamo le scatole e le mettiamo all’interno del garage, che ha il bello di essere incasinato come tutti i garage, ma in più questo ha anche molti originali di Jerry distribuiti un po’ ovunque, una delizia per ogni appassionato. La casa ha ampi spazi, ma nel complesso non ha quelle esagerazioni che spesso sembrano un’ostentazione inutile, qui tutto ha una sua funzionalità, ed è perfetto per la vivibilità di una coppia. I mobili sono sobri e hanno una eleganza vintage ma al contempo anche un design semplice che denota buon gusto, tutto è vissuto ma non trascurato, e si percepisce un’ordine e una pulizia che rispecchia la coppia. Lo studio è sobrio ma non sovraccarico di minuterie leziose o inutili, ingombranti né ostentazioni del proprio operato, lo spazio di lavoro di una persona ordinata ed equilibrata anche nelle sue passioni. Disseminate per tutta la casa, ma con ordine e oculatezza, ci sono maschere, statue di giraffe un po’ ovunque e suppellettili di foggia africana e precolombiana, così come da molti titoli in libreria, si percepisce l’interesse di Jerry per altri popoli, e questo è il chiaro indicatore di un’apertura verso civiltà diverse che lo rendono la persona che è.

La casa di Raymonde e Jerry Eisemberg a Tarzana.

Del resto, di tutti i personaggi che ho conosciuto Jerry è indubbiamente quello che ha uno spessore diverso, emana un’intelligenza arguta e curiosa, si percepisce anche dalla sagacia delle sue battute, sempre pungenti e mai banali, e dette sempre con quel sorriso bonario di chi ama prendere la vita con la giusta leggerezza cercando di vederne sempre il lato migliore. Nel suo volto e nel suo sguardo in particolare, scorgo la stessa bontà che aveva mio nonno, lo stesso modo che aveva di vedere il mondo, di quelle persone che cercano di smussare gli angoli piuttosto che acuire spigoli, e mi intenerisce il suo sorriso subito dopo avere detto una battuta, quasi a compiacersi non tanto per essere stato divertente, quanto per avere fatto quel piccolo regalo agli amici. Quando ci scambiamo gli sguardi, vorrei poter parlare con lui, ma il mio inglese non è tale da potermi permettermi di farlo come piacerebbe a me, ma non per chiedergli del lavoro e degli artisti che ha conosciuto, ma per sapere chi era, cosa faceva, conoscerlo in profondità; sono sicuro che mi sembrerebbe di parlare col mio amato nonno, ma purtroppo questo è un privilegio che non ho potuto avere. Mi accontento di avere scambiato qualche sorriso con lui, avere vissuto dei momenti insieme che ricorderò con grande affetto, per il senso di pace e di serenità che mi ha regalato. Del resto, tutto questo è merito anche di chi gli sta accanto, la moglie Raymonde, esprime una tale tenerezza e un amore verso quell’uomo che ho invidiato a quell’anziana coppia tutto il tempo che si sono concessi insieme, quando si guardano c’è una tale dolcezza nei loro sguardi, una tale complicità, è una tale condivisione di intenti, che mi fatto tornare in mente le parole di un filosofo sentito poco tempo fa, quando parlava d’amore, e affermava che quando due persone sono in quello stato, le loro onde magnetiche si fondono insieme entrando in sintonia, tutto è condiviso ed è vissuto con una intensità maggiore. Loro sono così, ancora adesso.
Accomodati in salotto sulle comode poltrone, Luca ed Eleonora cominciamo con le loro domande alle quali soggiace con la consueta bonomia fino alla fine della mattina, sotto gli occhi attenti e materni della moglie. Poi andiamo tutti a mangiare ad un ristorante li vicino il CKP California Kitchen Pizza, dove ci concediamo un piatto di pasta e una pizza a metà tra me e Luca. La scelta della pasta, già fatta diverse volte, è soprattutto frutto dell’eliminazione di alternative di hamburger e consimili di cui ci siamo abboffati per tutti questi giorni, non siamo mai alla ricerca di qualcosa che ricordi casa (a me non è mai interessato anche perché so che non lo troverò mai, e non mi interessa) ma piuttosto siamo in fuga da macinati di carne rossa, ketchup, patatine o fritti di vario genere, per capirsi.
Anche perché queste scelte talvolta portano a delle sorprese, la mia pasta infatti, che nel menù ha qualcosa nel titolo con Tijuana, ha infatti un sugo dai sapori messicani e, come ogni cucina estera, è concepita e rivisitata col gusto locale che, in questo caso ha fortissime influenze del paese limitrofo, oltre al fatto che la pasta non era neanche scotta e a me non è dispiaciuta affatto. La pizza che abbiamo condiviso con Luca, ricordava una quattro formaggi (anche se qui la facevo da padrone il sempiterno cheddar) con del pomodoro sopra e, a detta di entrambi, è stata gradita.

A pranzo dopo un’intensa mattinata di interviste, da sx: un emaciato Fabrizio, Eleonora, Jerry, Roymonde, Luca ed io, davanti a pizza e spaghetti all’americana (Tijuana).

Siamo tornati di nuovo a casa degli Eisemberg (dista poche centinaia di metri dal ristorante), ci siamo intrattenuti ancora un po’, fare compagnia a questa anziana coppia ci rende felici e vediamo che rende felici anche loro, abbiamo movimentato la loro vite in questi giorni e Luca con i suoi progetti ha dato ulteriori stimoli a questi grandi artisti, oggi un po’ dimenticati. Ma non vogliamo neanche abusare della loro resistenza, ed è giusto dargli un po’ di riposo. Al commiato, vorrebbero non lasciarci andare, con quel trasporto che gli anziani riversano nei confronti di chi ha avuto l’attenzione di condividere con loro il tempo: mi chiedono di salutare Alberto, vogliono vedere le foto di mia figlia, e quella di mia moglie e, quando sul vialetto del giardino ci scambiamo un altro abbraccio, negli occhi di Raymonde c’ è una tale gratitudine che a stento trattiene le lacrime.
Speriamo di vederli ancora, Jerry ha qualche acciacco ed ha difficoltà di movimento, anche se ha un bell’aspetto, ma gli anni non sono pochi, e nei nostri occhi, e credo anche nei loro pensieri, resta fortemente il desiderio e la speranza di avere altre occasioni.
Rientriamo all’albergo navigando attraverso il traffico di Los Angeles come oramai siamo abituati a fare, volevamo andare alla galleria di Van Eaton, ma il pomeriggio del lunedì è giorno di chiusura, rimanderemo a domani, se avremo ancora voglia e tempo per farlo. Ci dirigiamo verso il Marriott e decidiamo che questa penultima giornata californiana, per oggi può finire qui, tra le mura dell’albergo, vorremmo anche riposarci un po’, io devo scrivere il mio report e dobbiamo fare il check-in online, decidiamo così di non muoverci più.

Giorno 13

In camera siamo tre acciaccati, io e Luca siamo in preda ad una sorte di rinite allergica agli acari e allo smog, che ci fa tossire a senso alternato, e sono giorni che tra sciroppi e pasticche cerchiamo di lenire i pizzicori di gola. Fabrizio invece, è dalla cena di domenica sera che ha un leggero disturbo di stomaco che lo ha messo ko il giorno prima, ammosciandolo come un cencio sporco.
Ma stamani sembriamo leggermente più tonici, il problema è che dobbiamo partire, intendiamoci, non ho nessun rimpianto e torno anche volentieri a casa, abbiamo fatto quello che dovevamo fare, allacciato contatti, visto le persone che dovevamo vedere, e ci siamo goduti quello che la città ci poteva offrire, dodici giorni nella città degli angeli sono sufficienti per vederla.
Stamani si va da Van Eaton, il collezionista che abbiamo visitato all’inizio della nostra avventura, di cui abbiamo visto la nuova sede e ci aveva invitato anche all’inaugurazione, alla quale non siamo potuti andare perché era in pieno svolgimento il CTN.

Ventura Boulevard.

Solita trafila con chiamata di Uber e arrivo in loco sulla Ventura Blvd, una via piuttosto ampia e con un’attività commerciale abbastanza florida. Al negozio, anche se è riduttivo chiamarlo così, ci perdiamo per oltre due ore tra originali, gadgets, memorabilia, pezzi storici, tirature limitate di originali, stampe e miniature di ogni personaggio Disney, un vero tempio per l’appassionato di Animazione, materiale Disney è tutta quella quantità di action figures e statuine che solo gli americani possono produrre intorno ad un brand di successo fino a spremerlo all’ultima goccia.

L’ingresso di Van Eaton.

C’è l’originale della planimetria del primo progetto Disney, pupazzi di Pinocchio ed altri personaggi a grandezza naturale, progetti originali degli architetti dei padiglioni dei parchi a tema, manifesti di film originali, sketches di ogni tipo, vetrine ricolme di characters di ogni dimensione rappresentanti personaggi di ogni tipo, il tutto di in un ambiente nuovissimo e organizzato come un museo.

L’interno del negozio/galleria.

Praticamente ci passiamo la mattinata, poi rientriamo in albergo per pranzare con l’ultimo hamburger della vacanza insieme a Fabrizio Mancinelli che non ha voluto rinunciare a dare l’ultimo saluto a questo brandello d’Italia che ritorna in patria, ma che con la sua goliardia ha portato un po’ di sano casino in questa parte della California. Per l’occasione, Fabrizio ci ha gentilmente regalato il CD delle colonne sonore del film “The Land of Dreams” di cui ha curato musiche e testi delle canzoni e, alla fine, ci ha lasciato con rammarico di tutti, e con un sincero arrivederci a prossime occasioni, giusto in tempo per caricare i bagagli sul van del nostro nuovo tassista che, come per magia fa scomparire il nostro ingente bagaglio nel Toyota Serra, un gigantesco crossover come se ne vede da queste parti, e ci dirigiamo verso il Tom Bradley Airport di Los Angeles.
Le pratiche di imbarco sono veloci, molto più del previsto, ma questo lo avevamo riscontrato anche all’arrivo, e in uscita dal paese è sempre più semplice. C’è ben poco da aggiungere, ci accomodiamo tutti sulla stessa fila di sedili, come fissato nel check-in-in online, e poi ci accomodiamo ognuno concedendosi le proprie priorità.
Io mi guardo i film “Ambulance” di Michael Bay, un action adrenalinico che praticamente si svolge su un’ambulanza in fuga, e “La ragazza della palude” una sorta di procedural drama, con tinte noir, interessante.

Il Tom Bradley International Airport di Los Angeles.

Poi proviamo a dormire, ma sono nel posto di mezzo tra Fabrizio e Luca, e dispongo di possibilità di movimento molto limitate, mi gonfio il supporto per appoggiare il collo e provo a dormire. Passo tre ore così, tossendo per l’aria condizionata e rigirandomi sulla poltroncina, con la coperta addosso e come un’anima in pena. Poi si accendono le luci e comincia la distribuzione della “colazione”, una sorta di sandwich confezionato, un Crunch e una mini macedonia che ci permette di rivedere la frutta dopo quasi quattordici giorni. La prima tratta del viaggio, la più lunga è tutta qui, atterriamo alle 4,30 americane che sono le 13,30 europee.
Prima cosa: rimettiamo gli orologi.
Solo un paio d’ore d’attesa per il volo per Firenze, una bazzecola.
I ritorni sono sempre meno brillanti delle partenze, all’andata c’è l’euforia della promessa, al ritorno le certezze dei consuntivi, e l’idea di tornare ad una normalità abbandonata da parecchi giorni.

Gli italici three tooners prima del decollo, da notare la prestanza di Luca, afflitto da malanni per l’intero viaggio. 

Adesso che sono atterrato anche a Firenze, e quando per primo ho visto sul nastro trasportatore arrivare il mio bagaglio in stiva (cosa mai successa), mi dico che oramai il viaggio è davvero terminato, lo raccolgo, e mi metto in attesa degli altri che recuperino le loro.
Prendo al volo un treno su cui non avevo contato soltanto perché ci mette una mezz’ora in più, ma ha il merito di non fare scali intermedi, ed adesso sono seduto, stanco e indolente a scrivere questa ultima appendice di report.

Che dire, allora? Los Angeles è enorme, gigantesca e tentacolare e si può tranquillamente affermare che è una città che non ha un’anima, perché è un’insieme di altre cittadine divise da colline e vallate, accorpate ed unite tra loro unicamente da autostrade a dodici corsie che la attraversano e la sezionano in mille parti. È talmente vasta che praticamente è impossibile fornirla di mezzi pubblici adeguati, gli autobus della Metro che abbiamo visto, hanno dei percorsi che, nell’immensità topografica della città, non sono sufficienti per alleggerire il traffico che è caotico, e sono assolutamente insufficienti al fabbisogno urbano. Chi non ha un auto può ben poco, le distanze sono enormi e gli spostamenti impossibili, specialmente se si prendono le autostrade, fino a che si rimane nelle strade urbane, anche queste di cinque corsie, si viaggia con relativa tranquillità, come si prende una circonvallazione, ci si deve affidare al rosario e alla Madonna del Traffico, ricordate il film di Joel Schumacher con Michael DouglasUn giorno di ordinaria follia“? Ecco, siamo da quelle parti.
Qui ci si sveglia molto presto (del resto per colmare certe distanze, secondo dove si lavora, non si può fare diversamente), si fa una bella colazione, a pranzo si mangia poco o, mi dicono, molti addirittura lo saltano, ma in compenso si cena prestissimo, molti ristoranti infatti alle 20,30 sono già chiusi.
Non abbiamo avuto modo, ma non abbiamo neanche capito, come si divertono, quando vanno a cena, ad esempio? O almeno, ma le cene tra amici, a che ora le fanno? E la domenica. Come impiegano il loro tempo, in una città dove sei costretto a mettere il culo sull’auto di lunedì per rialzarsi il sabato, si rimettono alla guida per andare da un’altra parte? O ci rinunciano e si godono la casetta?
E tutti i visitatori dei parchi a tema, ad esempio, sono tutti turisti, sono americani provenienti da fuori, o sono tappa fissa per ragazzi che hanno ben poco altro da vedere?
Per un europeo credo siano domande che, anche se troveranno una risposta, sono difficili da comprendere, tanto le modalità della nostra vita sono diverse e in certi casi, opposte. Tutto è un supermercato: abbiamo visto Farmacie che vendono di tutto, o sarebbe meglio dire, supermercati che vendono anche farmaci. Non ci sono negozi al dettaglio, non ci sono macellerie, panifici, fruttivendoli o pescherie, intendiamoci, qualcosa ho visto ma soprattutto mi è stato detto, non ho fatto un’indagine sul territorio, non ero lì per fare un documentario sociologico. Se vuoi del pesce lo trovi confezionato al supermercato, e così vale per frutta, pane e carne assortita. Ma tutto quello che trovi è industriale, non è che al supermercato trovi il banco del pesce, del pane, o della frutta, trovi tutto confezionato.

Testimonianze del viaggio.

La ristorazione ha praticamente due livelli, quella del franchising, varie tipologie di marchi strutturati a catene, più o meno piccole, dalle grandi: McDonald’s, KFC, Burger King, alle più piccole Del Taco (messicano), Panda (cino-giapponese), Denni’s, Bubba Gump (catena basata sul l’episodio del film Forrest Gump, con piatti a base di gamberi) e varie piccole che hanno più o meno menù e prezzi similari, con qualche fusione con varie cucine etniche, spesso messicana, molto vicina ai loro gusti ed ad una popolazione che ha una percentuale di latini altissima. Ai Ristoranti di livello, ma qui pagare 100 dollari a testa è il minimo e può essere considerata una fortuna, si va ben oltre. Comunque, al di là dei sapori, che possono anche piacere, se non fosse che sono sempre quelli, è la quantità di calorie, grassi insaturi e proteine che trasformano i corpi di questa gente, spesso, in forme esasperate, fuori proporzione, immense. Del resto è il paese dell’esagerazione, o si è salutisti (ma viste le premesse è molto caro), ed allora sei un palestrato che fa running tutti i giorni e ha il fisico di Chris Emsworth, ma a dire il vero ne ho visti pochini (evidentemente o ho frequentato i posti sbagliati), oppure vedi delle persone che hanno delle misure imbarazzanti, dei giovani che strutturalmente, appena avranno superato l’età in cui il metabolismo se ne frega degli eccessi, pagheranno dazio su un’alimentazione criminale.
Le case sono carine, ma hanno tetti bassi e sono tutte in legno, anche quelle che sembrano costruite con i mattoncini, se vai vicino e le tocchi è legno modellato, carton gesso texturizzato, i rivestimenti sono di truciolato e poi sopra vengono intonacati o rivestiti sempre di legno, quello che si vede a Disneyland in realtà non è altro che una estensione del tutto, sembra tutto finto, carino ma leggero, senza peso, provvisorio. Poi magari si alternano strutture ciclopiche e gigantesche come la downtown o l’arena dove siamo andati a vedere i Lakers, ma i contrasti sono sempre enormi.
Le auto americane sono praticamente scomparse, almeno a queste latitudini, l’industria pesante della Ford, della GM, Chevrolet, Oldsmobile, Chrysler (visibile solo nelle JEEP) se c’è, è rimasta nei grossi Van GMC, o crossover di grandi dimensioni, per il reso sono asiatiche le medie cilindrate e molte ibride: Toyota, Mazda, Nissan, Honda, Hyundai, Kia, mentre l’alta gamma è prerogativa delle tedesche: BMW, Mercedes, Audi, unica reale testimonianza americana, è l’auto di Elon Musk, la Tesla, che dall’ultima volta che sono venuto è letteralmente decuplicata, ce ne sono moltissime e in diversi modelli, quando invece era rarissimo vederne.
Per me, l’America ha smesso da tempo di essere il paese dei miei sogni, per molti motivi, ma soprattutto, perché quando si prende consapevolezza di ciò che siamo, si ricalibra tutto quello che ci sta intorno, e lo si vede con occhi diversi. Certo, è una terra di opportunità immense e che possono cambiare la vita, perché nel suo gigantismo riesce a trasformare semplici idee in qualcosa di travolgente, e riesce a sfruttarne tutte le potenzialità, e questo che la rende così affascinante e meta dei sogni di tutti. Non bisogna mai dimenticarci però, che tutto questo è frutto di una subdola colonizzazione dell’immaginario, con cui hanno conquistato il nostro modo di vedere la vita vendendoci il loro modello di sviluppo, e la loro visione del mondo, da decenni,  ci ha convinto a suon di luci e paillettes che loro sono i migliori, sono i giusti e i buoni.
Ma nonostante tutto questo, quando ci sei, l’America ha la forza di farti tornare bambino, perché attraverso il potere dei sogni, e loro sono i migliori a costruirli, hanno conquistato il nostro immaginario, e quello non vogliamo perderlo per nessuna cosa al mondo, ne siamo gelosi, perché abbandonarlo vorrebbe dire rimettere in discussione il periodo più bello della nostra vita, e questo nessuno vuole farlo perché nessuno è disposto a rinunciarci.
Così, quando siamo tutti in fila ad un’attrazione Disney, come pecore al mattatoio, consapevoli che per vedere tre minuti di divertimento dobbiamo sacrificarne sessanta nell’attesa, il nostro volto è comunque sereno, lì in quel contesto il tempo sembra non avere valore, perché in fila non  ci siamo più noi, ma semplici bambini di sette anni, che aspettano che la loro giovinezza riprenda slancio e sia benedetta da quello che ci aspetta dietro all’ultimo cancelletto, che ci farà diventare protagonisti di quelle fantastiche avventure che fino a quel momento avevamo solo visto al cinema, e adesso possiamo finalmente viverle personalmente.
Perché i sogni non si spengono mai.

 

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