CALIFORNIA DREAMING -parte due-

Giorno 5

La mattina della domenica è esattamente identica a tutte quelle trascorse fino ad ora, soleggiata e luminosa, se l’umore si dovesse misurare con il tempo, saremmo sempre ottimisti.
Rebecca, Ginevra, Alberto ed io partiamo per il Getty Museum, mattinata di arte e cultura nella città degli angeli.
Il Getty Museum è una struttura situata sulla punta di una collina nel quartiere di Bel Air, che guarda il panorama di Los Angeles fino all’isola di Catalina. Sotto, in lontananza, si vede l’Oceano e tutto il litorale, alle spalle il nastro d’asfalto composto da dodici corsie che attraversa la piccola catena collinare che divide la costa dalla San Fernando Valley. Il museo fa parte del complesso del Getty Centre, ed è una struttura che il vecchio Paul Getty ha lasciato in eredità ai posteri senza mai poterlo vedere costruito, essendo stato inaugurato a oltre i vent’anni dalla sua morte.

Il Getty Museum, la sua entrata, la splendida architettura, e la vista sui nastri d’asfalto che collegano la costa con la San Fernando Valley.

L’imponente costruzione è composta da blocchi di granito ed è visibile dalla sottostante autostrada, le varie costruzioni che compongono i vari padiglioni del museo è accessibile attraverso un trenino su monorotaia che parte dalla costruzione posta in basso, dove ha sede l’accoglienza (l’ingresso è gratuito).
Nella struttura ci sono vetrate che danno respiro ai volumi e agli spazi e sono contornate da aree verdi, con inserimenti di roccia e cascatelle e specchi d’acqua che si uniscono in un’armonia architettonica perfetta, il panorama dall’alto della città, visibile da ogni lato della struttura, compone il background perfetto come sfondo scenografico all’insieme. Il complesso è imponente se si pensa concepito e costruito con le economie e le ricchezze di un’unica persona. I Getty sono stati tra i primi petrolieri che hanno estratto il prezioso liquido agli inizi del’900, e quindi l’escalation economica della famiglia è facile immaginare come sia stata vertiginosa nel secolo dove gli idrocarburi sono diventati l’oro nero e fonte inesauribile di energia per il mondo.
Del resto, la rivista Fortune nel 1957 incoronava Paul Getty come l’uomo più ricco del mondo.
Il giovane milionario, già dai suoi primi viaggi in Europa dimostrava una morbosa attrazione verso ogni forma d’arte, cominciando così ad acquistare opere di ogni tipo (quadri in primis, ma anche sculture, mobili, oggetti e di componenti d’arredo) e di moltissimi autori, fino a maturare il desiderio finale di donarli gratuitamente ai cittadini della città che lo aveva visto arricchirsi.
I padiglioni sono divisi per periodi è si va praticamente dal ‘400  fino ai primi del ‘900, di artisti contemporanei, a parte alcune sculture, tra cui Marini, Manzù, Moore, e una scultura di Roy Liechtenstein, non v’è traccia. Ma dalle icone del ‘400, passando per Correggio, Tiziano, Veronese, Mantegna, Artemisia Gentileschi, i fiamminghi, vari Rembrandt, e poi Gericault, David, Delacroix, Pissarro, Sisley, Miller, Monet, Corot, Cezanne, Van Gogh(con gli splendidi Iris), Munch, Segantini, l’arte è rappresentata davvero in tutte le componenti. Le sale sono splendidamente illuminate sia artificialmente che in modo naturale, i quadri sono visibili e in teoria si possono perfino toccare, non ci sono barriere ne divieti e sono perfino troppo vulnerabili, ma visibili al meglio. Poi c’è tutta la parte dedicata all’arredamento antico e relative suppellettili, pezzi unici e preziosi.

I fantastici “Iris” di Van Gogh.

I visitatori del museo: io, Rebecca, Ginevra e Alberto.

Il Getty Museum, un miracolo di vetro e granito con le sue armonie architettoniche, inseriti nel verde dei giardini che lo circondano e che si affaccia su un panorama mozzafiato.

La commistione tra il contenitore (la bellezza della struttura con la sua architettura e la fusione con la natura intorno) e il contenuto (la bellezza delle opere esposte con il loro carico di prezioso valore culturale) fanno dell’insieme una meta assolutamente imperdibile per chiunque passi da Los Angeles.
Certo, pensare che tutto questo è un regalo di un personaggio come Paul Getty, un tipo duro e spietato che non è certo ricordato come una persona tra le più simpatiche, sembra avere un certo contrasto, basta rammentare la sua estrema resistenza che fece per il pagamento del riscatto del nipote Paul Getty Jr. Il nipote che venne rapito dall’anonima sequestri negli anni ’70 e rocambolescamente liberato, come si narra nel film di Ridley Scott, interpretato da Marc Wahlberg e Christopher Plummer che interpreta nell’occasione il miliardario, dopo l’estromissione di Kevin Spacey per i problemi di stupro.
A pranzo ci dirigiamo verso i Warner Brothers Studios, dove nel pomeriggio abbiamo fissato il “Classic tour”, ma il ristorante è lo Smoke House Restaurant, famoso, ma me ne accorgo solo all’interno, perché qui sono state filmate le scene del film musicale “La la land”, è infatti il locale dove si esibisce al piano Ryan Gosling. Qui consumiamo il nostro pranzo con un wrap misto di pollo e bacon insieme al famoso pane all’aglio, circondato da foto in bianco e nero di famose star del passato di Hollywood, tra Marlon Brando e Humphrey Bogart, Dick Powell e Mirna Loy, che avevano eletto quel locale tra i loro preferiti.

L’interno dello Smoke House Restaurant, il locale dove Ryan Gosling suonava il piano nel film “La la land”, e meta tra le più frequentate dei divi di Hollywood, che infatti si trova nelle adiacenze dei Warner Bros Studios.

Il giro che iniziamo nel pomeriggio ci riporta nel fantastico mondo della celluloide, nell’immaginario che ha eletto questa città ad icona delle nostre fantasie e regina del nostro immaginario. Probabilmente se avessimo scelto un giorno feriale, avremmo anche corso il rischio di vedere qualche divo del cinema passeggiare tra gli enormi blocchi dei teatri di posa, o a pranzo alla mensa degli Studios. Qui, si svelano i trucchi che si nascondono dietro a inquadrature oculate, nella parzialità di ciò che si vede e dalla soggettività del punto di vista. Negli esterni sono ricostruiti pezzi di strade, scorci di architetture di paese, strade di New York degli anni ’30 che, alla bisogna, servono con le inquadrature più semplici che non abbisognano di muovere troupe all’esterno, risolvendo scene di film che possono essere girate all’interno degli studi. Si svela così, di fronte a noi, quello che sappiamo nella teoria ma che qui si palesa in tutta la sua nuda verità, nello squallore dei retroscena, nei grezzi supporti che reggono le facciate di edifici posticci, negli sfondi stampati su tela o negli alberi finti che compongono giardini fantoccio per le riprese di serie tv. Il fasullo come feticcio dell’apparenza, il ricostruito come prototipo dell’originale, il finto che diventa paradigma del reale, la fabbrica dei sogni in tutto il suo splendore che svela i propri trucchi senza perdere un etto del suo fascino.

Alberto, io, Rebecca, Ginevra e Fabrizio all’ingresso dei Warner Studios.

Il set di una serie televisiva di grande successo, e qui sopra la stanza dove si svolgevano le puntate della popolare serie “Friends”.

Alla fine del tour su trenino elettrico con speaker che spiega alcune curiosità degli Studios, si finisce nell’inevitabile Shop dove si può acquistare qualsiasi cosa attinente al contesto: t-shirt, felpe o oggetti legati a marchi, personaggi e prodotti della WB. Ma prima vale la pena percorrere una serie di corridoi carichi di curiosità, immagini, oggetti utilizzati nei film più famosi, abiti di scena, due allestimenti di due serie famose prodotte dalla WB come “Friends” e “The big bang Theory”, dove si possono fare foto ricordo, e poi degli ampi spazi dedicati agli eroi DC con costumi della Justice League, e di Batman con tutte le tute, le auto, le moto e tutto quello che può rendere felice un fan dei cinecomic. Il giro è stato piacevole e divertente, non che si sia rimasti sconvolti più di tanto da cose che si conoscono già, rimane il piacere di condividere atmosfere di personaggi che abitualmente percorrono e vivono quegli spazi, ma in tutto questo, devo riconoscerlo, mi rende triste la consapevolezza del fatto che queste sono esperienze che avrei voluto fare da ragazzino, per poterle vivere con tutta quella carica di ingenuità e creduloneria che mi avrebbe reso euforico ed entusiasta in quel modo così intenso è irreversibile che solo la giovinezza riesce a valorizzare.

La batmobile ed i costumi dell’ultimo film sull’uomo pipistrello “The Batman” diretto da Matt Reeves.

Sopra: i costumi di tutti i supereroi della DC, protagonisti del film “Justice League” e in basso: il cappello e la pistola di William Munny, il protagonista del western crepuscolare e capolavoro di Clint Eastwood “The Unforgiven”, in italiano “Gli spietati”.

Torniamo in albergo stanchi e spossati da un’altra giornata intensa come poche, saliamo tutti per rilassarci un po’, per rivederci più tardi per la cena.
La cena al  Drill e Grill Restaurant dell’albergo, è a base della solita zuppa di patate e vongole che è piaciuta a tutti, e tutti infatti prendiamo la stessa pietanza. Siamo stanchi, Luca torna in camera, mentre a noi pianifichiamo il giorno successivo, vorremmo fare un tour a Beverly Hills, si unisce noi anche Florian Satzinger, che era al bar insieme a sue due colleghi fino a quel momento, ma scambiamo solo poche battute prima di andare a letto, del resto il sonno, almeno per me, non è mai continuo e riposante, mi sveglio più di una volta, spesso anche dopo un’ora che mi sono coricato.
Ma se questo è il prezzo da pagare per andare in giro, credo siamo tutti pronti a pagarlo. 

Giorno 6 

Stamani giro a Beverly Hills, il tour da nerd per chi vuole tuffarsi in un mondo che non sarà mai suo gettandosi, per chi si prende troppo sul serio, nel grande mare della frustrazione. Ma è anche utile per capire quanto è lungo l’ascensore sociale che lascia a piedi molti per portare in cime i pochi, e nessun paese come l’America può essere il più adatto per capire questo.
Partenza da Hollywood Boulevard, Walk of Fame, dove c’eravamo soltanto l’altro ieri, la strada però è interrotta in un punto, perché stanno allestendo una enorme tenso-struttura che contiene il red carpet per la prima mondiale di una nuova produzione, più tardi capiamo che si tratta del film di animazione Disney “Strange World”, è infatti il tendone si interrompe in corrispondenza del cinema El Capitan, il teatro dove Disney ha sempre presentato in anteprima i suoi film.

Sopra: Hollywood Boulevard e qui sopra: il parco che delimita l’inizio del quartiere di Beverly Hills.

Partiamo in un piccolo bus di circa una ventina di posti, senza vetri e con il tettuccio trasparente.
La farò breve, perché è un giro che sostanzialmente appaga solo la parte più morbosa della curiosità di ognuno, io ovviamente non ne sono escluso, ma in realtà è anche un momento al quale non si vuole rinunciare giusto per farsi un’idea, dal vivo, di come vivono i nababbi di cui sentiamo parlare e che vediamo sui nostri schermi, sulle riviste patinate o in istantanee di Istagram, giusto per misurare la distanza in ricchezza delle nostre esistenze.
Il giro praticamente inizia sulle parole del conducente-speaker simpatico e ciarliero di cui capisco meno della metà di quello che dice col suo inglese biasciato.
Si sale per Mullholland Drive, la strada che si inerpica sulle colline che guardano quella parte della metropoli, dove lungo il percorso, nascoste da cespugli e piante di ogni tipo, si intravedono solamente cancelli e muri di cinta, e vediamo i contorni delle ville soltanto di quelle più distanti e che sono visibili dalla strada. La prima tra queste è quella di Jennifer López, poi arriva quella di Bruno Mars, Quentin Tarantino, Joaquim Phoenix e Taylor Swift, che enuncio ma che non conosco. Poi a scendere verso Beverly Hills, quella più imponente e ben visibile è quella di Sylvester Stallone, posta su una collinetta che domina quella parte della zona, poi arriva la parte pianeggiante e contraddistinta dalle palme altissime che finiscono con l’esplosione delle foglie, qui la visibilità è migliore e le ville si vedono nella loro maggiore completezza, qui non si individuano quelle di nessun attore in particolare, ma la ricchezza e l’opulenza di quello che vediamo ci da la misura delle ricchezze in gioco. Siamo su Beverly Hills Boulevard, qui l’alternarsi di magioni lussuose con tanto di auto di grossa cilindrata nel vialetto di casa, per quelle che non hanno recinzioni e separazioni, sono visibili in tutto il loro splendore, oltrepassiamo il Beverly Hills Hotel e circumnavighiamo la lussuosa Rodeo Drive (la via Montenapoleone di queste parti) che non è percorribile da pulmini, tanto per legittimare la differenza con le altre vie e stabilire le distanze. È la via più elegante ed esclusiva della città, che si distingue per una divisione tra le due carreggiate fatta di piante e palmette, quella via dove a spese di Richard Gere, Julia Roberts andava a fare shopping nel film “Pretty Woman”.
Dopo un giro durato un paio d’ore, ritorniamo su Hollywood Boulevard da dove siamo partiti, giusto in tempo per vedere smontare l’allestimento della posa di una nuova stella sul marciapiede della Walk of Fame, il tappeto rosso, la tenda parasole e le poltroncine per la solenne cerimonia, sono accatastate e riposte tra loro e pronte per una nuova occasione.
Torniamo in albergo e ci apprestiamo a ripartire per il “party” organizzato da Willie Ito a casa sua, dalle parti di Monterey. Sono ormai quasi le quattro del pomeriggio e siamo digiuni dalla mattina, per onorare la nostra presenza, ci è stato consigliato di non mangiare, è così abbiamo fatto. Noi ci siamo premuniti di portare le bevande, anche se quando siamo arrivati lì c’è n’erano già abbastanza, insieme al sestetto base, c’erano anche Fabrizio Mancinelli e Florian Satzinger che si erano uniti alla brigata. Il nostro arrivo è stato salutato con grande gioia, Willie e Toni Benedict ci aspettavano con entusiasmo, e abbiamo cominciato a presentarci a tutti gli intervenuti: vecchie glorie dell’animazione, studiosi dello stesso argomento, amici e conoscenti. La cosa che mi ha dato un’enorme soddisfazione è stata che, in quel contesto, ed esclusi i ragazzi che erano con noi, noi rappresentavamo la forza giovane, visto che abbassavamo di gran lunga la media dell’età, ed ultimamente, a queste piccole gioie non posso rinunciarci.
La casa di Willie è posta su una strada cieca in salita che finisce con una rotatoria nella quale l’auto deve girare in tondo per invertire la marcia. Il quartiere è residenziale e carino, e l’interno della casa è un museo dei gadget di personaggi dell’animazione, action figures di tutte le taglie di Topolino, i personaggi Disney e altre centinaia di characters occupano teche, mensole e armadietti disseminati in ogni angolo della casa, roba che se potessero parlare tutti insieme avremmo una cacofonia infernale, e in certi casi, se uno di queste statuette dovesse cadere, innescherebbe un effetto domino devastante.

Parte del gruppo del party organizzato da Willie Ito (al centro con la camicia hawaiana) i nostri eroi equamente distribuiti, col cappellone Big Bob, un simpatico intervenuto e sulla estrema destra la vedova del compianto animatore scomparso recentemente: Dale Bear.

Sul tavolo ci sono varie cibarie e tutte specialità messicane, un pasticcio di pollo, un’insalata di patate e maionese, varie salse incluso quella di jacamole, un vassoio di burritos, e poi birre, Coke, vino e altre bibite. Facciamo le presentazioni e poi, come in ogni festa, si formano vari gruppetti che parlano tra loro. Io non sono un esegeta dell’animazione, è risaputo, e mi districo attraverso le maglie della mia ignoranza con tutta la disinvoltura di cui sono capace. Willie Ito, insieme all’amico e collega Toni Benedict fanno parte del così detto trio denominato i “Three Tooners” insieme all’assente Jerry Esisemberg, che ha avuto qualche problema di salute, ma che vedremo nei prossimi giorni al CTN.
Questi tre grandi artisti sono state le colonne della Hanna & Barbera, la mitica casa di produzione di disegni animati della nostra infanzia, quella dei boomerang, per intendersi, cresciuta con i personaggi creati da loro: Braccobaldo. Yoghi e Bubu, Magilla Gorilla, Svicolone, Lupo de Lupis, gli Antenati, I Pronipoti, una serie di characters indimenticabili e che hanno rallegrato i nostri pomeriggi di fronte alla TV dei Ragazzi. Trascorriamo tutto il pomeriggio con loro, Willie ci fa vedere il suo studio e racconta i suoi inizi, poi alla spicciolata cominciamo ad andarcene tutti, rammentando di incontrarsi nei prossimi giorni nei vari incontri organizzati al CTN.
Noi rientriamo in albergo dove ci rilassiamo giusto un attimo prima di andare a cena, che sarà nuovamente al Drill&Grill dell’hotel, non riusciamo più ad uscire una volta rientrati nelle camere, finendo di scendere dabbasso per ordinare la New England Soup Chowlder, la solita zuppa a base di vongole e patata, buonissima.
Appena terminata la cena, dopo giusto il tempo di scaldare appena i cuscini della hall, e provare a prenotare nuovi posti per la partita di basket di venerdì sera, non riuscendoci. Decidiamo che è l’ora di andare a letto, siamo nuovamente stanchissimi, e domani di buon ora dovremo partire per gli Universal Studios, ed affrontare così una nuova giornata campale. 

Giorno 7 

Oggi Universal Studios.
Prenotati i biglietti da quasi una settimana, oggi è il turno di questo divertimento, la risposta della Universal a Disneyland.
Ci troviamo mezz’ora prima dell’apertura dei cancelli d’ingresso, e siamo i primi ad entrare, la giornata è come quelle precedenti, radiosa e luminosa, perfetta per giocare.
Iniziamo con il castello di Hogwarts e il mondo di Harry Potter, qui è stato ricreato il villaggio della serie che è dominato dalla struttura del collegio, lo stile è quello tipico inglese della fine dell’800, tutto brume, neve e tinte livide, ma solo in teoria però, perché qui in realtà è tutto illuminato da uno splendido sole. L’ultima volta che ci sono venuto, l’attrazione non era stata ancor realizzata e, a detta di tutti, risulta essere una della più apprezzate.

Universal Studios: l’interno del castello di Hogwarts e le strade del villaggio minuziosamente ricostruito.

Dopo non avere fatto neanche cinque minuti di fila, dopo avere attraversato molti degli ambienti del castello di Hogwarts minuziosamente ricostruiti, ma visti in tutta velocità, e gustandosi anche poco l’accuratezza dei particolari disseminati nel percorso che si dovrebbero osservare nelle lunghe file. Vista l’esiguità del pubblico di quell’ora, saltiamo direttamente tutto e ci ritroviamo con i piedi penzoloni, dentro una conchiglia che ospita quattro posti, con tanto di bloccaggio degli spettatori, e che vengono prontamente immobilizzati al sedile.
Inutile che vi spieghi lo spettacolo, sarebbe difficile e non renderebbe l’idea, è solo che veniamo catapultati all’inseguimento di Harry a cavallo della scopa e inseguiti dai draghi fiammeggianti, per entrare in ambienti pieni di animatroni o alberi magici che ci crollano addosso, per poi cadere a picco e risalire in un alto/basso che rimescola la colazione nello stomaco. Avere i piedi liberi aumenta la sensazione di sballottamento, rotazioni e inclinazioni vertiginose della struttura, che segue in sinergia gli spostamenti delle immagini amplificandone gli effetti. Inutile dire che è tutto terribilmente divertente, appena ci si siede all’interno della struttura e veniamo imbracati e bloccati come salami alla stagionatura, ci si stampa sul volto il sorriso ebete di chi sa che sta per divertirsi, ma ancora non sa cosa aspettarsi e, inutile dirlo, si ritorna per alcuni minuti bambini.
Forse queste attrazioni hanno effettivamente questa valenza o addirittura questa funzione per un popolo come quello americano, che deve essere trattato come un bambino perché, evidentemente, in questa condizione da il meglio di sé. E questa condizione è riscontrabile ovunque all’interno delle attrazioni, perché basta che un addetto ai lavori li inciti ad urlare all’unisono che questi urlano all’unisono, che applaudono e applaudono, che urlino e questo fanno, mostrando una partecipazione come diligenti soldatini, una gioia ed un entusiasmo per tutto ciò che banalmente gli viene richiesto, e che spesso è sempre artificioso, trasformandolo in qualcosa che ai loro occhi è originale e figo. Detto questo, pur con notevoli differenze non siamo molti diversi, magari senza urli e sbraiti, in questi frangenti ci divertiamo come pazzi anche noi.

La cittadella dei Simpson, le auto dei “Flinstones” e il set di un disastro aereo ricostruito.

Comunque sia, come dei bambini all’urlo di: “Ancora, ancora!”, e visto che la fila in confronto a Disneyland non esiste, ci rimettiamo in coda e facciamo nuovamente l’attrazione nelle medesime tempistiche, velocissimamente. Con la differenza che, questa seconda volta, gli sballottamenti danno perfino un po’ di nausea a causa dei cappuccini e dalle brioches ingeriti un’oretta prima, obbligati come sono a ballare il cha cha cha nello stomaco.
Decidiamo di fare subito il Tour degli Studios, e anche qui non esiste la fila e cominciamo subito senza indugi.
Il tour è quello classico: vie ricostruite (come alla WB), passaggio tra alti capannoni degli studi di posa, auto usate in film e telefilm parcheggiate in bella vista, la ricostruzione della via della serie “Desperate Housewives”, ancora la casa di “Psycho”, con tanto di Norman Bates col coltello che ci aspetta sulla porta di casa: un classico.
E poi il tunnel dove King Kong, attraverso gli occhialini in 3D consegnati alla partenza, combatte con i dinosauri come nel film di Peter Jackson, mentre il trenino che ci accompagna si muove scosso in modo interattivo dai colpi delle bestie in combattimento. Altra cosa del genere onora il successo della serie cinematografica “Fast and Furious”, con tanto di Vin Diesel, la Rodriguez e Dwyne Johnson impegnati in un inseguimento all’ultimo respiro sulle autostrade di Los Angeles, tra rocambolesche manovre, e spericolate azioni e sparatorie. Ci fanno saltare l’assalto dello squalo, mentre ci fanno invece passare nel villaggio di “Nope” (visto casualmente sull’aereo all’andata) l’ultimo film di grande successo, un thriller fantascientifico piuttosto inquietante, ma dove nell’attrazione non succede praticamente niente, e poi il passaggio in un set dove è stata ricostruita, con macabro realismo, lo schianto di un aeromobile passeggeri, con tanto di relitto, case distrutte e macerie sparse ovunque. Dopo è la volta di Jurassic World, attrazione modellata sulle forme degli ultimi film della saga. Un percorso su un battello all’interno del parco giurassico completamente distrutto dai sauri che si vedono soltanto alla fine. Poi ci dirigiamo di gran carriera verso il punto dedicato ai Trasformers, qui sono sicuro del divertimento dell’attrazione memore dell’ultima volta nella quale sono venuto. La fila è ridottissima, arriviamo ed imbarchiamo quasi subito, lo spettacolo è esattamente come lo ricordavo. Una volta indossati gli occhiali 3D, veniamo catapultati in una New York dove i Trasformers combattono contro altri mecha invasori, l’integrazione tra i movimenti della capsula in cui siamo imbracati, e l’azione in 3D che si svolge sugli schermi avvolgenti di fronte a noi è incredibile, è l’azione è vertiginosa e sincopata da lasciare senza fiato. Vista anche qui la fila esigua, appena usciti ci siamo rimessi subito in file e senza un minuto di coda l’abbiamo fatta un’altra volta.
Visto che si trova nelle vicinanze, decidiamo di fare anche The Mummy, veloce ed indolore la fila, qui però la corsa del rollercoaster velocissima al buio, con sprazzi di visione di animatroni, è piuttosto datata è non è memorabile. Ci siamo massaggiati con Fabrizio Mancinelli e andiamo a mangiare con lui nello spazio Universal posto all’esterno del parco giochi, dove siamo stati la prima sera, e dove pare si mangi qualitativamente meglio. Ora, affermare che la qualità sia migliore è oggettivamente molto azzardato, a queste latitudini mangi in ristoranti in franchising, dove la qualità è pessima e non spendi neanche poco, in rapporto a ciò che mangi. La cosa migliore da fare sarebbe quella di non allontanarsi troppo dal cibo spazzatura americano classico, che comunque non ti porterebbe troppo lontano da Hamburger, patatine fritte, ring onions e pollo fritto, do optare per cibo messicano o di altre etnie, ma comunque addomesticato sul gusto americano. Per mangiare bene, almeno come lo intendiamo noi italiani, devi andare nei ristoranti degni di questo nome, e mettere la mano al portafoglio senza chiederti perché questo ti sarà svuotato senza ritegno.
Ci accordiamo per incontrarci con Fabrizio al Grill Brew NBC Sports, un locale molto ampio con grandi schermi sintonizzati, in quel momento, sull’incontro di tennis all’ATP di Torino: Ruud-Fritz. Alberto appena li vede sul menù ordina subito dei nachos che vuole smezzare con me, e poi da veri maiali quali siamo ci ordiniamo due hamburger, entrambi col chili, giusto per rimanere su menù Mexico.

La parte commerciale (esterna) degli Universal Studios, l’attrazione show “Westworld”, ed io insieme a Luca ed Alberto, all’uscita del parco.

Nel pomeriggio ci concediamo le attrazioni Kung Fu Panda e i Minions, anche questi con attrazioni che sfruttano la sinergia del movimento delle sedute con l’integrazione con le immagini, ma con modalità diverse, più soft ed adatte probabilmente ad un pubblico più piccolo.
Alla fine, stanchi e decisi a porre fine a quella “gioventitudine” così stancante e farlocca, ci andiamo a sedere allo spettacolo dai contorni classici e live “Waterworld”, esplosioni, corse con motoscafi sull’acque, acrobazie ed action muscolare, decidiamo di separarsi, Fabrizio con le figlie continuano con altre attrazioni, io Alberto e Luca torniamo in albergo dopo avere speso qualche soldo agli stop di gadget e merchandising delle serie utilizzate nelle attrazioni.
Ultime foto di fronte agli Studios, e poi chiamiamo l’ennesimo Uber che arriva nell’arco di pochi minuti per portarci finalmente in albergo.
Qui, nel giorno precedente all’allestimento dello stand, e facendo un giretto per capire come procederà la sistemazione della manifestazione, che pare non utilizzerà la tenso -struttura abituale, incontriamo ed ho il piacere di conoscere Tina Price, il deus ex-machina ed eminenza grigia della manifestazione ed Alberto ed io, ci presentiamo.
Ma forse nei giorni successivi avremo modo di incontrarci e conoscerci meglio.
Prima della cena ci prendiamo un aperitivo al Drill&Grill  Restaurant dell’hotel insieme a Sandro Cleuzo che deve andare all’aeroporto a prendere la figlia, poi ci raggiunge anche Fabrizio con le ragazze e andiamo a cena.
Stasera, per evitare di nuovo la zuppa, buona per carità, ma avendo fatto filotto per tre sere di fila, questa volta vorremmo cambiare, così io, Luca e Fabrizio alla fine, optiamo per pasta pesto, una pasta, anche se fatta all’americana, giusto per mangiare carboidrati dopo avere ingerito solo carne macinata, lo sappiamo bene che è un rischio, ma questa volta con sprezzo del pericolo, ci va di accettarlo. La pasta, con nostra sorpresa, è mangiabile, il pesto sa di pesto e la pasta, ovviamente non al dente, non è però neanche colla immangiabile, io ne lascio un po’ ad Alberto, visto che non ho tutta questa fame, avendo dovuto smezzare la porzione di nachos a pranzo.
Finita la cena ce ne andiamo sui divanetti della sala, ma ben presto Luca ci chiama all’adunata, è ora di andare e noi siamo ben felici di farlo, dopo una giornata campale di giochi e sollazzi, siamo tutti distrutti, e corriamo il rischio di ripetere l’exploit della sera prima, dove siamo stati colti in tre sul divano della hall a dormire.
Siamo a metà del tour, molto è stato fatto, ma ancora ne rimane di cose da fare.

Giorno 8

 Luca e Fabrizio devono andare da Jerry Eisenberg, il terzo dei “Three Tooners” che non ho ancora conosciuto, ma mi risparmiano la visita casalinga, per cui mi aggrego ai ragazzi e ce ne andiamo verso il LACMA Los Angeles County Museum of Art, quando però scopriamo che proprio oggi questo è chiuso. Non ci perdiamo d’animo, Alberto è un perfetto tour operator e subito individuiamo un’altra destinazione che, forse, a conti fatti, è perfino più pertinente al nostro viaggio: Museo dell’Academy Awards, che si trova tra l’altro a poche centinaia di metri.
È una bellissima struttura moderna e il museo è articolato su tre piani, gli ambienti sono illuminati alla perfezione e il sonoro è circoscritto alle aree di appartenenza, anche nelle sale dove ci sono molti video che trasmettono in contemporanea, perché la diffusione del suono è completamente controllata e circoscritta ed evita l’inevitabile cacofonia.
Si parte dai primi strumenti di riproduzione delle immagini e si scende nel dettaglio di ogni settore, dai costumi, con ricche esposizioni di abiti, agli effetti speciali che vengono spiegati attraverso molti esempi, come le riprese di Avatar con le tute in motion capture per poi essere renderizzate con modelli in 3D. Un enorme spazio è dedicato al cinema nero, una Hollywood parallela che, ad esempio, in Europa è poco conosciuta, perché ad uso di un mercato prettamente americano e targhettizzato, nella parete dove erano esposte decine di attori neri tra gli anni ’20 agli anni ’70, io sono riuscito a riconoscerne solo tre: Sidney Poitier, Sammy David jr, e Harry Belafonte, al quale è dedicato un enorme spazio, anche perché strenuo difensore dei diritti dei neri. Un notevole spazio all’animazione, anche se non esaustivo, con un filmato su Winsor McCay che spiega il suo progetto di primo cortometraggio d’animazione, disegni, characters e machette di molti personaggi, sketches, curiosità e modelli di volti per l’animazione a passo uno. Bellissimo il matte painting del film “Intrigo internazionale” di Alfred Hitchcock, un’enorme tela di almeno 80 metri quadrati raffigurante il monte Rushmore, che fa da sfondo alle scene finali del film e pitturato completamente a mano e dispiegato in uno spazio che comprendeva due piani del museo, tanto sono grandi le sue dimensioni.

Museo dell’Academy Awards: gli storyboards di “Uccelli” di Alfred Hitchcock.

La scrivania di Don Vito Corleone del film “Il padrino”, di Francis Ford Coppola.

Il magnifico matte-painting alto più di due metri del film “Batman Returns” di Christopher Nolan.

Bellissima la parte riguardante testi e sceneggiature, con parti di sceneggiature esposte nelle classiche copie in carta carbone con cui venivano scritte, le pesanti macchine da scrivere usate, e i copioni con tanto di descrizioni e vergature con correzioni da parte dei produttori, fantastico. A corollario di quella de “Gli uccelli” di Hitchcock c’erano anche gli storyboard del disegnatore incaricato (non sapevo che venissero usati anche in quel periodo), e poi le scene scritte a mano su un foglio protocollo dal Maestro del thriller.
Un bello spazio è dedicato al cinema di Pedro Aldomovar, con manifesti, spezzoni di film in mostra su molti schermi, credo sia una mostra tematica e temporanea, che cambia periodicamente in funzione del maestro da celebrare.
Una parte importante di oggetti e curiosità sono dedicate al film “Il padrino” di Francis Ford Coppola, un capolavoro assoluto, c’erano filmati di prova, i costumi, l’ufficio dei Corleone, gli abiti di scena, le lettere scritte da Coppola alla produzione, i disegni dei costumi e filmati di molti punti salienti dell’opera su molti monitor e, in quei momenti catturati dal film si riviveva con la stessa intensità quelle emozioni provate alla prima visione.
Devo riconoscere che sono rimasto colpito dalla parte dedicata al “Padrino”, perché anche messa a confronto con le nuove tecnologie, con i nuovi mezzi di produzione, la bellezza della ricostruzione, l’attenzione ai materiali e la ricchezza di arredi, oggetti e abiti, sono l’emblema del cinema, sono il manifesto della realtà delle cose che danno una concretezza che si riflette sulla credibilità del cinema. Tempo fa, mi capitò di vedere alcune scene di “Novecento” di Bertolucci, e vedere i veri cascinali della bassa padana, le reali moltitudine delle comparse, invece che indistinti personaggi virtuali o perfette ricostruzioni digitali, dava un corpo e un sangue all’opera che lo rendeva carnalmente più viva. Lo so che non si può tornare indietro, e che la tecnica sopperisce al tempo e al denaro in maniera indiscutibilmente utile e ineludibile, ma lasciatemi ricordare quando le comparse erano scelte dai registi, e le location andavano scoperte con attenzione negli angoli più remoti del mondo, per poi scoprirne le bellezze.

La cornetta di Louis Armstrong e in basso il gigantesco matte-painting del monte Rushmore, realizzato per alcune scene del film con Cary Grant e James Mason: “Intrigo internazionale” di Alfred Hitchcock.

Ad ogni modo il percorso museale è stato molto interessante e ne manterrò un ricordo piacevole. Usciamo dal palazzo e ci guardiamo intorno per trovare un posto dove mangiare, e al di là del deserto che si stende intorno a noi -Los Angeles è una città di auto e guidatori, e non certamente di pedoni e camminatori- vediamo che a qualche centinaio di metri c’è un ristorante che propone pizze. Lo so che è rischioso cercare italianità fuori dai confini nazionali è dannoso e spesso, se non sempre, ci si rimette, ma anche mangiare tutti giorni ad hamburger e patatine, alla fine stanca, e azzardiamo.
Da Rocco’s, la grandezza della pizza si misura in pollici, il prezzo invece, da ciò che ci butti sopra (toppers chiamano i componenti che aggiungi all’insieme), per cui ognuno di noi se la compone inserendo gli ingredienti che vuole. Quando dopo pochi minuti la portano, il primo problema è stato lo spazio per appoggiare i quattro mega vassoi. Le pizze hanno un bell’aspetto e, alla fine, neanche facevano schifo, forse quella di Alberto era un po’ unta, e l’impasto non era eccezionale (e del resto la pizza si giudica dall’impasto), ma come la pasta al pesto della sera prima, alla fine è risultata mangiabile e, o sarà stata la fame o il desiderio di casa, che alla fine nei patti non c’è rimasto quasi nulla.

Beverly Hills.

Usciamo intorno alle due e trenta, il sole si fa sentire, specialmente nel riverbero che riflette dal cemento e, camminare dalla parte assolata della strada, è piuttosto stancante. Il Gps ci dice che Rodeo Drive è a circa sei isolati di distanza, non sono tanto, ma non sono neanche pochi, ma non ci perdiamo d’animo e, causa una deviazione che ci fa fare un altro giro. Ci immettiamo in stradine di quartiere di Beverly Hills, dove possiamo vedere realmente le classiche case circondate dal pratino, nelle lunghe strade alberate e dalle palme altissime, lo stereotipo dell’agiatezza americana e sogno di ogni comune mortale che abbia agganciato con l’immaginario, l’universo che ci è stato contrabbandato come panacea di ogni desiderio.
Poi, dopo tanto camminare dopo avere incontrato ogni tipo di stile architettonico, ogni archi decorato o villetta in stile coloniale, siamo arrivati finalmente a Rodeo Drive.
Questa via, e qui il nazionalismo è giusto che prenda il sopravvento e si bei di tanta superiorità, perché il manifesto allo stile e al gusto italiano (o di quel che ne è rimasto).
Qui si contano i nomi dello stile italiano, e vado rigorosamente a memoria: Stefano Ricci, Pomellato, Brunello Cucinelli, Prada, Etro, Versace, Moncler, Armani, Valentino, Bulgari, Tod’s, ed altri che non rammento ma di sicuro sbatacchiamo fortemente tutti gli altri concorrenti. Su questi marciapiedi esclusivi, con un centro carreggiata con filari di palme inframezzati di vagoni natalizi già pronti per le feste, le persone sembrano essersi rianimate, e passeggiano garrule lungo la strada. Evidentemente lo shopping, che da queste parti è praticato solo da pochissimi personaggi è però un momento di rara socialità, forse incentivata dall’ostentazione di McLaren, Porsche, o RollsRoyce come quella gialla, decappottabile e appartenente ad una limited edition parcheggiata lungo il marciapiede.

La strada che congiunge artificiosamente (ad angolo) Wilshire Boulevard con Rodeo Drive, si intravedono i marchi Porsche Design e Pomellato.

Rodeo Drive.

Non c’è niente da capire, qui siamo in uno dei cuori più ricchi del pianeta, qui niente è impossibile e tutto questo, come si raccontava in una antica trasmissione TV, fa spettacolo.
Siamo stanchi e ci mettiamo ad osservare il traffico che scorre sulla Wilshire Avenue, nella città che si muove su quattro ruote, il parco macchine è nuovissimo, vecchie carrette non se ne vede, ma non mi è capitato di vederle neanche in quartieri ben più poveri di questo, magari mi è capitato di vedere grossi pick-un parcheggiati fuori da catapecchie, ma nessuno si sogna di non avere un’auto all’altezza. Dall’ultima volta che sono venuto qui, dove vedere una Tesla era raro, oggi posso affermare senza ombra di smentita che, tra le tedesche, le giapponesi e le coreane, la Tesla invece rappresenta l’auto americana sicuramente più presente su questo mercato. Per onorare il mercato italiano, oggi (e solo oggi) siamo riusciti a vedere quattro o cinque 500 Fiat, unica e rara auto nostrana presente da queste parti.
Chiamiamo il nostro autista Uber che oggi è un tizio dalla guida scattosa, ma che non riesce ad evitare di portarci all’albergo in meno di un’ora, il traffico è intenso su tutte le routes, e tra le auto tinte di rosso nei colori del tramonto, rientriamo al Marriott quasi all’imbrunire.

Insieme a Gary Goldman.

Qui incontriamo con sorpresa Gary Goldman che non sapevamo essere qui, e John Pommeroy nell’atrio dell’albergo, li salutiamo e ci dirigiamo a prendere un drink al bar, dopo aver salutato Eleonora Giuffrida che si è unita a noi, una studentessa che proveniva da San Francisco, dove stava usufruendo di una borsa di studio della scuola, presso lo studio di John Nevarez.
I prossimi giorni ci sarà anche lei, e domai inizia il CTN.

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